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Channel: Michel Aoun – Pagina 144 – eurasia-rivista.org
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Qatar: quanto potere in una striscia di sabbia?

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 La piccola penisola conta poco più di un milione e seicentomila abitanti, tre quarti dei quali sono lavoratori espatriati. Possiede una riserva di petrolio di 25 miliardi di barili e la terza riserva mondiale di gas naturale, dopo Russia e Iran. I proventi del settore degli idrocarburi producono un risultato, in termini di PIL procapite, impressionante.

Il Qatar è ora anche uno dei primi esportatori di gas naturale liquefatto (GNL). Nell’ultimo decennio, la crescita della domanda per questa nuova risorsa ha reso il Qatar uno dei paesi più ricchi al mondo in termini di Pil pro-capite, che il FMI stima a 76.160 dollari nel 2010- un dato che si pensa possa crescere nei prossimi anni. Questo ha permesso all’emirato di offrire ai propri cittadini uno standard di vita invidiabile, senza doversi quindi preoccupare di un intralcio come la democrazia deliberativa.

 Eppure il Qatar sembra avere un approccio diverso verso le rivolte popolari che hanno preso piede nei paesi vicini. Quando le forze di sicurezza iraniane furono condannate a livello internazionale per gli attacchi ai manifestanti dopo le elezioni contestate del 2009, il primo ministro qatariota affermò che “si trattava di una questione interna” e che “dobbiamo rispettare il diritto di ogni stato di risolvere i propri problemi”. A marzo, mentre in Bahrein si reprimevano violentemente le proteste dei manifestanti di Manama, il Qatar diede il proprio supporto all’intervento militare guidato dall’Arabia Saudita per difendere il regime.

Allo stesso tempo, nonostante il Qatar ospiti il principale quartier generale del Comando centrale militare Usa (Centcom) e sia stato la principale base di attacco contro l’Iraq nel 2003, ha anche dato supporto ad Hamas e ad altri gruppi militanti. E ancora, il Qatar avrebbe già accordato agli Usa il permesso di usare la base presente sul suo territorio per bombardare l’Iran, secondo quanto rilasciato da WikiLeaks, a patto ché gli Usa garantiscano che le operazioni nel giacimento di gas di South Pars, di proprietà del Qatar e dell’Iran, non vengano minacciate.

 Mentre il vicino Bahrein veniva investito dalle proteste, gli Emirati Arabi Uniti arrestavano attivisti in cerca di riforme liberali e la provincia orientale dell’Arabia Saudita era teatro delle più grandi proteste degli ultimi 30 anni, l’emiro Sheikh Hamad continua a godere di un’insolita popolarità. L’unica volta nei tempi recenti in cui i cittadini del Qatar siano scesi in piazza è stato quando il paese ha inaspettatamente vinto la richiesta presentata per ospitare i mondiali di calcio del 2022.

 Quando Sheikh Hamad giunse al potere nel 1995 dopo aver deposto suo padre, Sheikh Khalifa bin Hamad al-Thani, il Qatar era una tipica piccola monarchia del Golfo. Era difficilmente conosciuta all’estero e nonostante Sheikh Khalifa avesse creato un generoso welfare state durante il boom petrolifero degli anni 70, la maggior parte della sua ricchezza rimaneva concentrata al vertice. Era una delle monarchie più conservatrici, strettamente influenzata dalla vicina Arabia Saudita.

A dispetto di questo retroterra, l’arrivo al potere di Sheikh Hamad divenne un’opportunità per il paese di ridefinire se stesso. Nel 1996 venne fondata Al Jazeera, che presto divenne il maggiore canale televisivo arabo. Lo stesso anno una missione commerciale israeliana arrivò a Doha, evento senza precedenti nel golfo, che fu seguito dalla visita dell’allora primo ministro israeliano Shimon Peres. Subito dopo, l’emiro cominciò la costruzione della base militare Usa del valore di un miliardo di dollari.

 Queste scelte erano frutto dei consigli di Sheikh Hamad bin Jassem bin Jaber al-Thani, prima Ministro degli Esteri e dal 2007 primo ministro. L’obiettivo sembra essere stato quello di guadagnare legittimità e autonomia, perseguendo una strategia indipendente dal potente vicino saudita.

In politica interna furono anche annunciate dal ministero dell’informazione, simbolo tradizionale del controllo sulla stampa, una serie di riforme politiche.

Queste includevano la creazione di un consiglio municipale elettivo nella capitale; la redazione di una nuova Costituzione da approvare tramite referendum; e il diritto di votare e di essere elette agli uffici municipali per le donne (nonché quello di guidare). L’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha puntato, inoltre, ingenti risorse sull’istruzione, sul dialogo interreligioso e sulla progressiva apertura del paese alle relazioni internazionali.

 Tuttavia molte delle riforme politiche sono rimaste ferme. Le elezioni parlamentari che erano state promesse per il 2005 sono state posticipate indefinitamente. Persiste quindi il sistema di governo tradizionalmente irresponsabile, con tutte le decisioni emanate dall’ufficio dell’emiro.

E le promesse appaiono ora solo un mossa strategica per assicurarsi il supporto internazionale e consolidare il controllo sul frammentato clan al-Thani.

 La lunga mano del Qatar

Considerata la sua straordinaria situazione economica, è difficile comprendere la ragione per cui il Qatar voglia sconvolgere lo status quo nella regione. In Libia si è concluso il dominio di Gheddafi; in Siria Assad è sempre più isolato; in Palestina Hamas ha preso le distanze da Damasco; in Giordania i Fratelli Musulmani aspirano a rientrare nel gioco politico; la Tunisia è diventato il primo grande laboratorio arabo che tenta di conciliare la democrazia con l’Islam. Dietro ognuno di questi scenari si cela il piccolo emirato.

La Siria

Sabato 12 novembre la Lega Araba ha annunciato la sospensione della Siria e ha deciso di emanare ulteriori sanzioni economiche contro il regime di Damasco, soprattutto sotto la spinta di Qatar e Arabia Saudita.

Il Qatar aveva scommesso nell’opera di modernizzazione promossa da Assad, investendo in maniera ingente nell’economia siriana, ma la rivolta scoppiata a marzo ha guastato i rapporti tra i due Paesi. L’atteggiamento del raìs, che da una parte annunciava le riforme e dall’altra continuava a reprimere le proteste, ha portato l’emiro a schierarsi progressivamente con l’opposizione. Lo stesso copione si era già svolto in Libia, dove fu proprio la presa di posizione della Lega, con la successiva richiesta di una “no fly zone”, a costituire la base della missione Nato in Tripolitania e in Cirenaica. Nel caso in cui si dovesse procedere ugualmente in Siria, il Qatar farebbe la propria parte.

La Libia

Doha è stato il primo paese arabo a riconoscere il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi.Ha partecipato allo sforzo bellico, ha addestrato militarmente e ha sostenuto economicamente i ribelli. Ha accolto i transfughi del regime, come l’ex ministro degli Esteri, Moussa Koussa. Ha permesso agli insorti di trasmettere dagli schermi di una tv satellitare. Nel momento in cui gli Stati Uniti non possono più permettersi un impegno su larga scala, le tradizionali potenze sunnite sono distratte dai problemi interni, l’Iran deve gestire il dossier nucleare ed è prigioniero di lotte intestine, il Qatar si presenta come l’unico attore in grado di agire con rapidità ed efficacia. L’Egitto è impegnato nella transizione post Mubarak, la gerontocratica classe dirigente dell’Arabia Saudita si sforza di disinnescare qualsiasi ipotesi di rivolta endogena, la Siria è dilaniata dalla guerra civile: in questo contesto il dinamismo del Qatar non fatica ad emergere.

Esiste ora in Libia uno scontro politico sul ruolo assunto dal Qatar nella ricostruzione e nella formazione delle nuove istituzioni. Il primo a scagliarsi contro il governo di Doha è stato l’ex ministro degli Esteri del regime di Muammar Gheddafi e delegato all’Onu, passato subito dalla parte dei ribelli, Abdel Rahman Shalgham. “La Libia non sarà un emirato del Qatar – ha affermato – il Cnt ha accettato dal paese imposizioni che la maggior parte dei libici avrebbe rifiutato”. La polemica è stata ripresa dall’ex premier del Cnt, Mahmoud Jibril.  I due politici laici del Cnt, apparentemente usciti di scena con la nomina di Abdul Raheem al-Keeb a premier, si riferivano in particolare allo sceicco Ali al-Salabi, il leader della corrente islamica del paese, sostenuta proprio dal Qatar che di recente ha deciso di inviare nel paese il giornalista palestinese Waddah Khanfar, ex direttore di Al-Jazeera, per fondare una nuova tv che sia al suo fianco. Le dichiarazioni critiche dei fondatori del Cnt nei confronti del Qatar emergono dopo che al-Salabi ha rivelato di “voler fondare in Libia un partito islamico simile a quello di al-Nahda in Tunisia per andare al governo”. Lo sceicco islamico ha però negato di aver ricevuto armi e soldi da Doha per combattere Muammar Gheddafi. Secondo il giornale ‘al-Quds al-Arabila permanenza di un personaggio come Ali al-Tarhuni nell’esecutivo di Tripoli, in qualità di ministro del petrolio, rende la battaglia degli islamici per la conquista della Libia ancora aperta”.

Al Jazeera

 Quando Sheikh Hamad fondò Al Jazeera nel 1996 la principale innovazione fu quella di offrire una copertura di notizie in Arabo vicina agli standard di indipendenza del modello occidentale. Lo scopo non era quindi “democratizzare”il Medio Oriente.

Il canale iniziò a farsi un nome con la copertura dell’11 settembre e delle vicende di Iraq ed Afghanistan. Le frequenti messe in onda di Osama bin Laden inoltre, sollevarono immediate accuse di anti-americanismo. Ma per gli spettatori nel Medio Oriente, la credibilità di Al Jazeera derivava dall’innegabile capacità di catturare l’umore delle masse.

 In alcuni cablogrammi del 2009 rilasciati da WikiLeaks, l’ambasciata Usa a Doha riportava che le relazioni tra Qatar e Arabia Saudita erano migliorate in seguito a “un tono meno critico nei confronti della famiglia reale saudita da parte di Al Jazeera”.

L’emittente fondata e finanziata dall’emiro è un formidabile strumento di pressione perché può accendere o spegnere i riflettori, a seconda delle convenienze. Dopo 15 anni di Al Jazeera è possibile infatti tracciare molti parallelismi tra il canale e la politica estera del Qatar.

Il crescente coinvolgimento del governo nella gestione del canale sembra confermato dall’annuncio del 20 settembre scorso delle dimissioni del direttore generale del network, il palestinese Wadah Khanfar, sostituito da Sheikh Ahmed bin Jassim bin Mohammed al-Thani, membro della famiglia reale.

Poche settimane prima WikiLeaks aveva rilasciato altri cablogrammi, in cui si dimostra che Khanfar incontrò funzionari statunitensi in diverse occasioni nel decennio passato per ascoltare le loro preoccupazioni circa Al Jazeera. Durante le recenti rivolte, osservatori in Medio Oriente hanno notato che il canale arabo di Al Jazeera non ha dato alcuna copertura delle proteste in Arabia Saudita e solo molto tardi di quelle in Siria, che era inizialmente alleato del Qatar. Soprattutto, ha ignorato del tutto la violenta repressione delle proteste in Bahrein.

 Quale strategia?

L’ambivalenza politica dell’emirato consiste da un lato, nel salvaguardare i legami preferenziali con i partners occidentali (USA in primis), e dall’altro, nell’accreditarsi nei consessi regionali e internazionali come nuovo punto di riferimento per l’area, facendosi portavoce degli orientamenti arabi e musulmani, anche più radicali. Spesso, il Paese del Golfo ha cercato di mediare fra le istanze di rivendicazioni islamiche e le posizioni filo-occidentali dei vicini. A dispetto delle sue ridotte dimensioni, l’emirato si pone quale “ago della bilancia” nelle principali questioni internazionali a cominciare dal conflitto israelo-palestinese, proponendosi come mediatore tra Hamas e il governo di Tel Aviv.

Secondo alcuni, Doha seguirebbe una linea settaria, sostenendo in Siria, ad esempio, l’opposizione sunnita contro l’élite alawita di Assad. A riprova di questa tesi vi sarebbe l’appoggio all’intervento saudita in Bahrein, per reprimere la rivolta degli sciiti. Altri parlano invece di un’agenda islamista che il Qatar vorrebbe imporre a tutto il mondo arabo. Bassma Koudmani, uno dei leader dell’opposizione siriana, crede invece che l’emiro si sia limitato a riempire un vuoto: “Ha occupato uno spazio e un ruolo che era stato lasciato scoperto da altri Paesi”.

L’opportunismo qatariota guiderebbe anche il sostegno fornito ai movimenti islamisti che beneficiano dell’apertura dei sistemi arabi alla competizione politica. “Il Qatar è un Paese privo di ideologia – sostiene Talal Atrissi, analista politico libanese– Doha sa che gli islamisti rappresentano il nuovo potere. Alleandosi con loro, vuole estendere la propria influenza sull’intera area”.

A differenza di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, l’emiro mantiene stretti legami con le differenti branche dei Fratelli Musulmani, dalla Libia alla Siria, dall’Egitto alla Giordania. Khaled Meshal, leader in esilio di Hamas, è di casa a Doha, come il popolare islamista egiziano Yusuf Qaradawi. Gli stessi talebani potrebbero aprire una loro rappresentanza nel Golfo.
Sono piuttosto noti i rapporti tra il Qatar e Rachid Ghannouchi, capo carismatico di Ennahda, il partito uscito vincitore dalle recenti elezioni tunisine, anche grazie al sostegno economico dell’emiro. Ma l’apporto più evidente si è avuto in Libia, dove gli islamisti espatriati a Doha hanno giocato un ruolo chiave nella fine di Gheddafi, in primo luogo il predicatore Ali Sallabi e il guerrigliero Abdel Hakim Belhaj, attualmente al vertice del consiglio militare di Tripoli.

È probabile dunque che la prossima generazione di leader arabi non provenga più dall’ambiente militare, ma da quello dell’Islam politico. Doha è già pronta a relazionarsi con questa nuova classe dirigente, soprattutto attraverso la potenza combinata del denaro e dei media. 

Il sostegno agli islamisti però non comporta affatto una rottura del legame con Washington, basato su due fondamenti: il favore statunitense per il golpe pacifico del 1995 e la base aerea di al-Udeid. Né l’emiro disdegna i rapporti con gli sciiti: basti pensare ai fondi elargiti al Libano per la ricostruzione dei villaggi distrutti da Israele nel 2006.

Quindi la politica estera qatarina mira a lasciare il Paese libero dalle tensioni settarie a sfondo religioso o da escalation politiche che caratterizzano l’area e che rischierebbero, invece, di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale vanificando i grandi traguardi raggiunti negli ultimi anni.

Alla fine l’abilità di Sheikh Hamad è stata quella di promuovere il Qatar come una delle più sofisticate e aperte società del Golfo Persico, tuttavia facendo attenzione a conservare il suo sistema socio-politico- e il suo status nel mondo Islamico fra le altre monarchie tradizionali- praticamente intatto. L’attivismo di Doha nella questione libica e bahreinita o, nel recente passato, le azioni di mediazione diplomatica in Palestina, in Libano e in Darfur hanno rappresentato una grande novità politica, garantendo al Qatar un aumento del suo prestigio e del peso politico nei principali forum internazionali.

Il caos in cui versa l’area del Golfo è l’occasione per Doha di assicurarsi un ruolo da protagonista sulla scena regionale e internazionale. In più, il ruolo della tv satellitare Al-Jazeera, vero e proprio strumento di politica estera accanto ai canali ufficiali, ha incrementato il potere del Qatar, estendendone l’influenza oltre i suoi confini. Quello che confermano gli eventi degli ultimi mesi e le azioni del governo di Doha è, quindi, che, pur trovandosi in un contesto complicato come il Medio Oriente, un piccolo emirato può diventare una realtà in continua ascesa, protagonista del panorama internazionale e in grado d’influenzare le dinamiche politico-economiche globali.

* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma

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